Livia Portolan

 
Livia Portolan

nato nel 1919
Roma

5 Racconti

19.0 min
I ricordi e esperienza del campo hanno pesato molto sulla vita di Livia che dice di non riuscire a piangere anche se vorrebbe. Si definisce arida. D’altra parte i ricordi del campo, dice Livia, sono tutti terribili. Le frustate per essersi messa in fila per la zuppa una seconda volta, il fango nelle scarpe che diventavano pesantissime, il dover trasportare per sette km il bidone della zuppa, e quella volta che per punizione un SS l’ha buttata nella latrina, il portare i morti sul carretto verso il crematorio e sentire le ossa che si spezzavano quando il corpo cadeva sulle assi. Ricorda anche che nel campo non c’era solidarietà tranne che fra gli ebrei.
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6.9 min
Il ritorno è stato difficile per tutti gli italiani ma per Livia si trattava di non avere nemmeno un posto a cui tornare perché nel frattempo i suoi familiari avevano lasciato l’Istria. Livia è arrivata a Bari quando la madre era già morta. E ha subito scoperto che non era solo una ex deportata ma soprattutto una profuga istriana: gli italiani non volevano questi italiani nuovi. Livia è andata a Milano, ha conosciuto un giovane, si è sposata e subito dopo è esplosa la terza pleurite. Ha fatto tre anni in sanatorio, appena sposa. Guarita nel 1952.
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8.7 min
Quando i russi sono diventati troppo vicini, Livia insieme ad altre donne, è stata portata a Eberswalde, a cinquanta km da Berlino, dove lavorava in una fabbrica di armi. Le baracche erano a due-tre km dalla fabbrica e si trattava d marciare con le scarpe dieci numeri più grandi. Quando il 19 aprile bombardarono Berlino, chiesero alla deportate di scavare trincee per difendere Berlino ma il 24 scapparono anche i tedeschi. Già qualche giorno prima avevano notato che sotto le palandrane le kapò indossavano abiti civili, come se dovessero scappare. Il 24 aprile il campo fu abbandonato e le deportate uscirono. Livia si unì ad una colonna e arrivarono in un campo russo per prigionieri liberati dove gli italiani venivano comunque trattati con distacco: erano considerati traditori. Livia in tutto questo, oltre alla malaria, aveva la pleurite. Il 2 ottobre 1945 Livia partì con un treno ospedale diretta verso l’Italia.
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16.0 min
Livia è arrivata ad Auschwitz il 4 giugno 1944, quando a Roma entravano gli alleati. Arrivata è stata spogliata, rasata, tatuata e poi ha cominciato a lavorare. Uno dei lavori era spezzare e battere la ghiaia per fare la maccaroni strasse, perché gli italiano venivano chiamati così, quando non venivano chiamati scheisse. Altro lavoro era portare i morti della baracca al forno crematorio. Altro lavoro era andare in campagna a sette chilometri marciando al suono di Rosamunda, canzone che Livia odia: capitava di scavare una buca per poi richiuderla. Poi c’erano le punizioni: una volta sbagliarono il conto dell’appello al rientro e le donne della baracca rimasero in piedi fuori tutta la notte ed era il 30 novembre. Un’altra volta Livia fu costretta a rimanere 12 ore in piedi davanti al filo spinato con l’alta tensione. La cosa scioccante comunque era stato l’arrivo: i cani, le file per la selezione, i colpi di frusta e di bastone. Se le madri non volevano lasciare i bambini venivano mandate alla camera a gas insieme a lui. Livia ricorda una scena che evidentemente ha ispirato il film La scelta di Sophie. Una volta arrivate alla baracca, si dormiva in tre o quattro sullo stesso lett...
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7.1 min
Livia è nata in Istria quando era ancora parte dell’Impero austro-Ungarico. Ha fatto le scuole a Zara poi ha cominciato a fare l’università a Venezia. Ma il padre, ufficiale di Marina, nel 1942 è scomparso a Tobruk e, mancando i soldi, Livia ha lasciato gli studi per andare a lavorare alla Banca d’Italia a fiume. L’8 settembre Livia si trovava a Spalato. Insieme alla sorella che aveva solo sedici anni, avrebbe voluto raggiungere la madre e il fratello a Curzola ma intanto li avevano mandati a Bari. Così, rimasta a Spalato, Livia entrò in una formazione partigiana. Il 28 ottobre venne a sapere che era stata individuata ai nazisti. Per sfuggire all’arresto, lei e la sorella riuscirono a salire su una nave ospedale e arrivarono a Trieste dopo otto giorni di navigazione sotto le bombe. A Trieste Vera venne arrestata col suo datore di lavoro, un napoletano che faceva il doppio gioco con i partigiani. Con lei vennero arrestate anche la sorella e la cugina. E portate tutte ad Auschwitz.
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